Ritratto di Bindo Altoviti – Il capolavoro giovanile di Raffaello Sanzio

Ritratto di Bindo Altoviti – Il capolavoro giovanile di Raffaello Sanzio

 

 

Il Ritratto di Bindo Altoviti (c. 1515) di Raffaello Sanzio – olio su tavola, 59,7 × 43,8 cm. National Gallery of Art, Washington.

 

 

Il Ritratto di Bindo Altoviti di Raffaello Sanzio è uno dei più affascinanti dipinti del Rinascimento maturo, capace di coniugare perizia tecnica, profondità psicologica e un’audace originalità compositiva. Realizzato intorno al 1515, nel pieno dell’attività romana di Raffaello, questo dipinto raffigura il giovane banchiere fiorentino Bindo Altoviti in una posa insolita e carica di vita: voltato di tre quarti di spalle, con il volto girato a incontrare lo sguardo dello spettatore. Riconosciuto da Giorgio Vasari come un’opera di “stupendissima” bellezza, il ritratto ha attraversato secoli di storia, collezioni e dibattiti critici, fino a giungere all’attuale collocazione presso la National Gallery of Art di Washington. In questo saggio lo analizzeremo sotto ogni aspetto: tecnico, iconografico, storico e psicologico, inserendolo nel contesto della produzione di Raffaello e del Rinascimento italiano, per comprenderne la rilevanza e l’unicità che ne fanno un punto di riferimento nel mondo dell’arte.

 

Analisi tecnica e compositiva

Dal punto di vista formale, il Ritratto di Bindo Altoviti rivela l’assoluta padronanza tecnica di Raffaello e la sua ricerca stilistica negli anni romani. La composizione è innovativa: invece di presentare il soggetto frontalmente o di profilo come nella ritrattistica tradizionale, Raffaello lo dipinge di spalle, col busto ruotato verso sinistra e il volto che si volge indietro verso di noi. Questo espediente compositivo crea un effetto di movimento e spontaneità, quasi di colto in flagrante, conferendo vitalità al dipinto. La figura disegna una curva elegante nello spazio, evidenziata dalla linea della spalla e del mantello blu che scivola sulla schiena, mentre il volto luminoso emerge in alto a destra su uno sfondo verde intenso. L’insieme genera un equilibrio raffinato tra dinamismo e armonia: il giovane sembra sul punto di voltarsi completamente, ma resta immortalato in un istante sospeso.

La tavolozza cromatica è ricca e simbolica. Lo sfondo verde smeraldo, saturo e uniforme, crea un forte contrasto con la carnagione avorio-rosata del volto e con il biondo dorato dei capelli di Bindo. Il mantello azzurro cangiante e la manica nera aggiungono profondità cromatica: il blu, colore prezioso ricavato dal lapislazzuli, indica l’alto status del soggetto, mentre il nero della manica e del berretto equilibra la composizione fornendo una nota scura che fa da contrappunto alle tinte chiare. Raffaello dimostra qui la sua maestria nell’uso del colore e della luce: un’illuminazione morbida proviene da sinistra, accarezzando il volto di Bindo e la spalla scoperta, e sfuma dolcemente in ombra sul lato opposto. Il risultato è un sottile chiaroscuro che modella i tratti con delicatezza, senza i contrasti drammatici tipici di altri maestri. Il viso si staglia luminoso e plastico, mentre il collo e la parte in ombra della schiena sfumano gradualmente nel verde scuro del fondo. Questa fine gradazione tonale, evidente attorno agli occhi e alle labbra, richiama l’influenza di Leonardo da Vinci, le cui opere Raffaello studiò attentamente durante il soggiorno fiorentino e oltre. Non a caso, la posa aggraziata e quasi effeminata del giovane Altoviti, unita al gioco di luci ed ombre sul suo viso, è atipica per i ritratti maschili di Raffaello e testimonia la volontà dell’artista di sperimentare nuovi registri espressivi nella ritrattistica.

Sul piano del disegno, il dipinto esibisce la leggendaria sicurezza e pulizia lineare di Raffaello. I contorni sono allo stesso tempo morbidi e definiti: il profilo del volto e del cappello si staglia nitido contro lo sfondo, ma senza durezza, grazie a sfumature sapienti che ammorbidiscono l’intersezione tra figura e sfondo. I dettagli sono resi con tocco fine: le ciocche di capelli biondi, lunghe e leggermente mosse, sono dipinte con minuzia che rende quasi tattile la loro setosità; le sopracciglia sottili e armoniosamente disegnate seguono l’ideale di bellezza del tempo (quelle “perfettamente arcuate” che, come nota Waldemar Januszczak ironicamente, Raffaello pare concedere a tutti i suoi soggetti, maschili e femminili). Gli occhi verde chiaro di Bindo, dal taglio allungato, risplendono di una lucentezza vitrea ottenuta con piccoli colpi di luce bianca sullo sguardo. La mano sinistra, posata sul petto, è anch’essa delineata con cura anatomica: si intravedono le dita affusolate e l’anello d’oro con castone verde sul dito indice, reso con un tocco brillante di colore che ne indica la gemma. Tutto nel dipinto rivela insomma l’altissima perizia esecutiva di Raffaello, capace di combinare la grazia idealizzante appresa da Perugino con un’osservazione attenta del vero, filtrata attraverso l’eleganza naturale del suo segno.

 

Iconografia e significato simbolico

Anche se si tratta di un ritratto laico e apparentemente privo di complessa simbologia, il Ritratto di Bindo Altoviti comunica significati sottili attraverso dettagli iconografici e scelte stilistiche ponderate. Bindo Altoviti è raffigurato all’età di circa 22-24 anni, colto nella pienezza della sua giovinezza e avvenenza. Indossa un abbigliamento ricercato ma non ostentato: un ampio mantello blu foderato (forse di raso o seta) che lascia scoperta la parte alta della schiena e si apre sulle maniche, rivelando al margine del collo un lembo di candida camicia. Il blu oltremare era all’epoca un colore costosissimo, tradizionalmente riservato alla Vergine Maria nell’arte sacra, qui il suo uso in ambito profano allude alla ricchezza e allo status elevato di Bindo, rampollo di una delle più importanti famiglie di banchieri fiorentini. Allo stesso tempo, la scelta di un abito alla moda ma raffinato suggerisce il gusto colto del giovane, desideroso di presentarsi come un gentiluomo sofisticato più che come un ricco ostentatore. Il berretto nero morbido calzato sul capo, accessorio tipico degli uomini di cultura del tempo, incornicia l’alta fronte luminosa senza coprire la chioma – quasi a voler coniugare decoro e vanità: Bindo si mostra come un uomo d’affari serio (il berretto scuro) ma anche conscio del proprio fascino (i lunghi capelli sciolti).

L’acconciatura stessa merita attenzione iconografica. Bindo porta i capelli molto lunghi, scendenti sulle spalle in morbide onde bionde che si dividono in due ciocche all’altezza della nuca. Questa capigliatura, decisamente fuori dall’ordinario per un ritratto maschile, accentua l’ambiguità androgina della sua bellezza: se non fosse per l’abbigliamento maschile, il volto delicato e i lunghi capelli potrebbero quasi suggerire una figura femminile. È possibile che Raffaello, affascinato dall’estetica della giovinezza, abbia intenzionalmente idealizzato i tratti di Bindo, attenuandone la virilità a favore di un’immagine di bellezza universale. Il risultato è un ritratto dal fascino ambiguo e sensuale, dove la distinzione di genere sfuma in favore di un ideale estetico rinascimentale fatto di grazia e armonia. Questa scelta iconografica di rappresentare un uomo in pose e atteggiamenti tradizionalmente riservati a personaggi femminili (si pensi allo sguardo languido di certe Madonne o sibille) potrebbe essere letta come un tributo di Raffaello all’amico e mecenate: Bindo è celebrato non solo per il suo ruolo sociale, ma per le sue virtù e qualità personali, simboleggiate dalla bellezza interiore ed esteriore che traspare dal dipinto.

Un altro elemento eloquente è la mano sinistra di Bindo posata sul petto. Questo gesto può essere interpretato in più modi. Da un lato, è un gesto naturale, quasi di raccoglimento di sé, come se il giovane stesse aggiustandosi il mantello oppure stesse accennando a un saluto rispettoso. Dall’altro lato, la mano sul cuore è tradizionalmente simbolo di sincerità e di lealtà: Bindo potrebbe voler comunicare la sua probità d’animo, l’onore e la fedeltà, qualità importanti per un banchiere e cortigiano del XVI secolo. Non va dimenticato che, probabilmente, il ritratto fu commissionato in occasione di un evento significativo nella vita di Bindo, molto probabilmente il suo matrimonio con Fiammetta Soderinispenceralley.blogspot.com. La presenza dell’anello con il grosso brillante verde (forse uno smeraldo) all’indice potrebbe alludere proprio al vincolo nuziale o comunque allo status familiare: sebbene l’anello al mignolo fosse più comune come segno distintivo maschile, Raffaello qui lo rappresenta sull’indice in modo ben visibile, quasi a sottolineare simbolicamente l’unione e la prosperità (lo smeraldo era associato a Venere e alla concordia coniugale). In assenza di altri attributi iconografici (come libri, strumenti o fondali paesaggistici), sono questi dettagli: il gesto della mano, il gioiello, l’abbigliamento, a veicolare il profilo intellettuale e morale del soggetto ritratto.

 

Contesto storico e collocazione nell’opera di Raffaello

Per comprendere appieno il Ritratto di Bindo Altoviti è fondamentale inserirlo nel contesto biografico e artistico di Raffaello e del Rinascimento italiano. L’opera fu dipinta a Roma attorno al 1514-1515, anni in cui Raffaello, poco più che trentenne, godeva di straordinario prestigio alla corte pontificia. Reduce dai successi delle Stanze Vaticane affrescate per Giulio II e impegnato nei nuovi incarichi datigli da Leone X (come i cartoni per gli arazzi di San Pietro), Raffaello era all’apice della sua carriera, considerato il pittore più dominante e richiesto di Romaspenceralley.blogspot.com. È in questo ambiente vivace e competitivo che il giovane e ricco Bindo Altoviti, trasferitosi a Roma da Firenze, entrò in contatto con l’artista. Bindo era all’epoca un brillante banchiere di circa vent’anni, appartenente a una famiglia fiorentina in esilio (per opposizione ai Medici) e ben inserito nel circuito papale. Appassionato d’arte e mecenate, annoverava amicizie con Michelangelo, Cellini e lo stesso Vasari, Bindo rappresentava il prototipo dell’uomo colto del Rinascimento, che cercava nell’arte la celebrazione della propria immagine e al contempo un mezzo di affermazione sociale.

Commissionare un ritratto a Raffaello, all’epoca “il più caro” e celebrato pittore di Roma, era per Bindo non solo un atto di vanità personale ma soprattutto una dichiarazione di status: significava consacrarsi alla memoria con l’ausilio del pennello del divino artista. Fonti moderne suggeriscono che il dipinto venne probabilmente commissionato da Bindo in occasione del suo matrimonio (avvenuto intorno al 1515)spenceralley.blogspot.com, a testimonianza di un momento felice e cruciale della sua vita. Raffaello, dunque, parallelamente ai grandi lavori pubblici e religiosi, trovava il tempo per soddisfare le richieste di influenti privati: oltre a Bindo Altoviti, in quegli stessi anni realizzò altri celebri ritratti come quello dell’amico Baldassarre Castiglione (1514-15) e forse La Velata (tradizionalmente identificata con la sua amante, 1516 ca.). Il ritratto di Bindo, tuttavia, si distingue dai suoi altri lavori coevi per l’inconsueta vivacità della posa e l’intimità psicologica. Se Castiglione è raffigurato con compostezza classica e sguardo pensoso, e La Velata con regale riserbo, Bindo invece volge il capo con una spontaneità quasi colta di sorpresa, fissando lo spettatore con occhi vivi e un accenno di espressione indecifrabile sulle labbra. Questa differenza suggerisce che Raffaello volesse sperimentare nel genere del ritratto soluzioni meno formali: forse un segnale di evoluzione del suo stile negli ultimi anni di vita, una “svolta” in direzione di maggior naturalismo e immediatezza emotiva.

In effetti, alcuni storici dell’arte hanno visto in questo quadro persino un’anticipazione di sensibilità manierista o barocca. Il moto spiraliforme del busto, il contrasto accentuato luce/ombra e l’erotizzazione androgina del soggetto non troveranno paralleli immediati nei ritratti dei contemporanei di Raffaello, ma preannunciano soluzioni che diverranno più comuni qualche decennio dopo, con i ritratti sofisticati del Bronzino o, più tardi, con i giochi chiaroscurali dei ritratti di Caravaggio. Naturalmente Raffaello rimane un artista pienamente rinascimentale: la “grazia” domina ancora la scena. Ma è interessante notare come nel periodo tardo della sua produzione (di cui questo dipinto fa parte) l’artista stesse ampliando il proprio registro espressivo. Purtroppo, il corso di questa evoluzione fu troncato dalla morte prematura di Raffaello nel 1520, a soli 37 anni. Bindo Altoviti, sopravvissuto all’amico artista, ne mantenne viva la memoria: fu tra coloro che onorarono la salma di Raffaello al Pantheon e, come molti altri, dovette confrontarsi con l’eredità di un genio scomparso all’apice della fama.

 

Storia, collezioni e fortuna critica dell’opera

Il Ritratto di Bindo Altoviti vanta una storia collezionistica ricca di eventi, che riflette le alterne vicende della sua attribuzione e del gusto delle varie epoche. Inizialmente il dipinto restò proprietà della famiglia Altoviti per circa tre secoli. Bindo stesso, presumibilmente, lo conservò nel suo palazzo a Roma (un edificio sontuoso presso Ponte Sant’Angelo, decorato da Vasari, poi demolito nell’Ottocento). Alla sua morte nel 1557 l’opera passò al figlio Antonio Altoviti, arcivescovo, e di erede in erede rimase agli Altoviti tra Roma e Firenze. Nel Settecento tuttavia avvenne un fatto curioso: verso il 1750 alcuni eruditi e artisti cominciarono a mettere in dubbio l’identità del soggetto rappresentato, avanzando l’ipotesi che quel giovane dai capelli lunghi fosse in realtà un autoritratto di Raffaello. Questa interpretazione fu alimentata dalla venerazione diffusa per Raffaello (ogni sua presunta effigie era ricercatissima) e dalla relativa ambiguità fisionomica del dipinto. La voce prese talmente piede che perfino gli eredi Altoviti finirono per dubitare che il ritratto raffigurasse il loro antenato Bindo. Ciò li convinse, nel 1808, a vendere il quadro a un acquirente straniero, spuntando un prezzo altissimo proprio perché presentato come rarissimo autoritratto di Raffaello.

Nel novembre 1808 il dipinto fu acquistato attraverso il mercante Johann Metzger da Ludovico I di Baviera, allora principe ereditario e grande collezionista d’arte. Giunto a Monaco, il quadro fu esposto come Autoritratto di Raffaello nelle collezioni reali, entrando poi nell’Alte Pinakothek. Tuttavia, a metà Ottocento, alcuni studiosi iniziarono a dubitare che quel giovane effeminato fosse davvero Raffaello: emersero perplessità sia sull’identificazione del soggetto sia – conseguentemente – sull’autografia raffaellesca dell’opera. In breve tempo, quel dipinto un tempo idolatrato conobbe una drammatica caduta di prestigio. Come raccontano David Alan Brown e Jane Van Nimmen, “la caduta in disgrazia del dipinto di Monaco dimostra che [quando] oggetti di culto [vengono] screditati, l’adorazione si trasforma in imbarazzo e disprezzo. Non essendo né di Raffaello né da lui, il ritratto di Monaco [sembrò] ormai non avere alcun valore”. Nella seconda metà dell’Ottocento e inizio Novecento, vari critici attribuirono l’opera ai seguaci di Raffaello: furono fatti i nomi di Giulio Romano, di Gianfrancesco Penni e altri, nel tentativo di trovare un autore alternativo al maestro. Di conseguenza, il museo di Monaco arrivò a considerare il quadro un pezzo secondario e deaccessionabile, ovvero alienabile dal patrimonio: era ormai ritenuto un lavoro di bottega senza la mano del grande Urbinate.

L’occasione di cessione si presentò durante il regime nazista. Nel settembre 1938, sotto il governo di Hitler, la Pinacoteca di Monaco scambiò il dipinto (ritenuto sacrificabile, vista l’attribuzione incerta) con la galleria londinese Agnew’s, ottenendo in cambio altri oggetti. Quasi immediatamente, nell’ottobre 1938, il quadro passò nelle mani dei celebri mercanti Duveen Brothers, attivi tra Europa e America. Furono probabilmente i Duveen, esperti nel “rivalorizzare” opere d’arte per il mercato, a riattribuire con forza l’opera a Raffaello, basandosi anche sulle ricerche storiche (il riferimento nella biografia vasariana a Bindo Altoviti calzava a pennello per identificarlo definitivamente). Nel 1940 il ritratto fu acquistato dalla Samuel H. Kress Foundation di New York, collezione che ambiva a raccogliere capolavori dell’arte europea per donarli a musei americani. La vicenda si concluse nel 1943 quando, riconosciuto ormai universalmente come autentico Raffaello, il dipinto venne donato insieme ad altre opere della collezione Kress alla National Gallery of Art di Washington, dove tutt’oggi è esposto. Lungo questo tortuoso percorso, la critica ha infine confermato il verdetto vasariano: l’opera è di mano di Raffaello e rappresenta proprio Bindo Altoviti, come si era creduto in origine.

La fortuna critica del ritratto, come si è visto, è stata altalenante. Se Vasari nelle Vite (1550-1568) lo cita esplicitamente lodandolo: “a Bindo Altoviti fece il ritratto suo quand’era giovane, che è tenuto stupendissimo”, già un secolo dopo l’identità del soggetto si offuscò e nel XIX secolo l’attribuzione a Raffaello venne pesantemente messa in dubbio. Fu merito di studiosi come Giovanni Morelli e Bernard Berenson restituire a Raffaello alcune opere disperse o mal attribuite, e questo dipinto non fece eccezione. Berenson, in particolare, incluse il Ritratto di Bindo Altoviti nei suoi repertori dei dipinti italiani (1907; 1932; 1968) attribuendolo al catalogo di Raffaello e contribuendo a riaffermarne l’autenticità. D’altro canto, alcune voci autorevoli continuarono a proporre un intervento della bottega: ad esempio lo storico dell’arte Ernst Hartt nel 1958 ipotizzò che il quadro fosse in parte opera di Giulio Romano. Oggi la critica è concorde nel ritenere autografo il dipinto, pur riconoscendo che esso getta luce sulla collaborazione fra Raffaello e gli allievi: la straordinaria qualità del volto e delle mani è difficilmente eguagliabile, mentre in alcune parti secondarie (il mantello, forse) si intravede la possibile partecipazione di aiuti. Ma se mano di aiuto vi fu, Raffaello supervisionò e completò comunque l’insieme, lasciando il suo inconfondibile sigillo stilistico.

Nel corso del XX e XXI secolo, il Ritratto di Bindo Altoviti è stato esposto in importanti mostre che ne hanno accresciuto la fama. Nel 1983 fu presente a “Raphael and America” a Washington; nel 2003-2004 è stato fulcro della mostra “Raphael, Cellini & a Renaissance Banker: The Patronage of Bindo Altoviti”, allestita tra il Gardner Museum di Boston e il Museo del Bargello di Firenze, dove per la prima volta si celebrava questo mecenate attraverso i capolavori a lui legati (il dipinto di Raffaello e il busto bronzeo di Bindo scolpito da Cellini nel 1550 circa). Successivamente l’opera ha viaggiato a Madrid e Parigi per la mostra “Late Raphael” (Prado e Louvre, 2012-2013), a Vienna per “Raffaello” all’Albertina (2017) e di recente a Londra, nella grande retrospettiva “Raphael” della National Gallery (2022) organizzata per commemorare i 500 anni dalla morte dell’artista. Ogni esposizione ha confermato l’impressione che già Bernard Berenson ebbe del dipinto: quella di un’opera unica nel suo genere, in cui Raffaello tocca vette di finezza psicologica e bellezza formale difficilmente riscontrabili altrove.

Critici moderni hanno speso parole d’elogio sul ritratto, sottolineandone ora la delicata introspezione, ora l’audacia innovativa. Se talvolta Raffaello è stato accusato di eccessiva perfezione formale – “per gran parte del Novecento il gusto per Raffaello è rimasto confinato agli ‘amanti di dolci melensi e del camp più sfacciato’”, ha scritto provocatoriamente Waldemar Januszczak – opere come il Bindo Altoviti smentiscono questo cliché, rivelando un artista capace anche di inquietudine sottile e di sensualità. Lo storico dell’arte John Pope-Hennessy, parlando del busto di Bindo scolpito da Cellini, ne lodò la profondità personale, qualità che senza dubbio promana già dal dipinto di Raffaello: in entrambi i ritratti di Altoviti,  pittorico e scultoreo, emergono una serietà e un’individualità psicologica non comuni per l’epoca. In definitiva, la critica odierna riconosce nel Ritratto di Bindo Altoviti non solo uno dei vertici dell’arte ritrattistica di Raffaello, ma anche un documento umano di straordinaria potenza evocativa, capace di mettere in dialogo l’ideale di bellezza rinascimentale con la realtà emotiva di un individuo in carne ed ossa.

 

Conclusione: l’immutabile sguardo di Bindo

All’osservatore contemporaneo, il Ritratto di Bindo Altoviti offre un’esperienza estetica e emotiva che trascende il tempo. Di fronte a questo dipinto, ci troviamo quasi coinvolti in uno scambio di sguardi con un giovane vissuto cinque secoli fa: Bindo ci guarda oltre la spalla, con gli occhi chiari leggermente velati da un’ombra di pensiero, le labbra appena dischiuse come se stesse per parlarci. In quel volto sospeso tra idealizzazione e realtà riconosciamo la mano di Raffaello nel cogliere l’essenza fuggevole di un carattere. La sprezzatura rinascimentale, quell’eleganza naturale priva di sforzo, definita da Baldassarre Castiglione, pervade l’immagine: Bindo appare al contempo semplice e aristocratico, familiare e iconico. La luce calda che accarezza la sua carnagione sembra ancora viva, come se il passare del tempo non l’avesse offuscata.

In chiusura, possiamo dire che Raffaello, con questo ritratto, è riuscito nell’intento più alto dell’arte: rendere immortale un istante e una persona. Il giovane banchiere del Rinascimento ci è restituito in tutta la sua umanità, e attraverso di lui intravediamo un riflesso dello stesso Raffaello – non per un fantasioso scambio di identità, ma perché l’artista ha infuso nel dipinto tutta la sua visione del mondo: armonia, bellezza e introspezione psicologica. Oggi Bindo Altoviti “vive” agli occhi del pubblico del museo di Washington, e il suo sguardo continua a interrogarci silenziosamente. Critici e storici potranno ancora dibattere dettagli attributivi o influenze stilistiche, ma davanti a questa tavola ciò che prevale è l’emozione di trovarsi al cospetto di una presenza reale. Come scrisse Vasari, quel ritratto era considerato “stupendissimo” già nel Cinquecento, e a ragione: ancora oggi esso ci stupisce e ci incanta, testimonianza tangibile di come l’arte di Raffaello sappia parlare al cuore degli uomini di ogni tempo.

 

Fonti: Vasari, Le Vite it.wikisource.org; Brown & Van Nimmen, Raphael & the Beautiful Banker; National Gallery of Art Washington nga.govnga.gov; W. Januszczak, The Sunday Times waldemar.tv; Vicino Project (Raphael) vicinoproject.com  

 

 

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